Intervista: Antonio Pascale, un poeta – S’è fatta ora, il suo bellissimo libro d’amore.

di Antonella Lattanzi
da http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2006/11/intervista_escl.html

La mattina dopo il mio compleanno, controllo la mail di sfuggita. Ho da fare, non potrò soffermarmi molto su quella che è una pratica che adoro: scoprire con gusto, se posso ogni giorno, e certe volte con delusione, chi mi ha scritto, chi mi ha pensato, e chi no. Ora non ho proprio tempo per leggere. Sono distratta, ho troppo da fare, devo scappare, il pericolo è di scorrere superficialmente poche mail, di non capirne il valore e il senso, di tralasciarne di importanti. Meglio lasciar perdere per il momento, allora, tornerò più tardi ma. Ma trovo la mail di Antonio Pascale, bella, pasciuta, felice, unica, la trovo in cima alle altre come fosse vergata in un inchiostro diverso. È un colpo al cuore. Le pupille mi si dilatano immediatamente, come per un piacere improvviso. Antonio Pascale mi ha risposto. Non me l’aspettavo. Il cuore mi batte. Apro la mail. Mi dice che possiamo vederci per l’intervista. Tutto quello che dovevo assolutamente fare oggi, tutti i miei impegni assoluti, le mie priorità, il mio continuo nevrotico andare, d’improvviso deflagra su stesso, implodendo, volatilizzandosi, e scompare. Sono libera, ora, liberissima, per Antonio Pascale. Il mondo non c’è. Esiste soltanto il 492, che mi porta sino a Piazza XX Settembre, e che smette d’un tratto di esistere quando scendo io. Poi esiste soltanto il 60, che passa subito e dal quale devo sbarcare di corsa, dopo appena una fermata, giusto giusto in Via Nazionale, e proprio davanti alla Melbook Store, dove incontrerò lui. Che bello, incontrare uno dei miei scrittori preferiti in una libreria! Sembra un sogno! Il sole batte sul corso. Ci sono i negozi, la gente c’è, e pure le macchine, i motorini, un venticello leggero. C’è Roma la grande, fatta di strade enormi, e viottoli che sbucano in slarghi da favola, come materializzatisi d’incanto, proprio davanti ai miei occhi, slarghi e monumenti, i latini e i greci, Michelangelo e la Cappella Sistina, San Pietro e il Colosseo, slarghi e monumenti e parchi così belli e grandi da mozzare il respiro. Davvero. C’è tutto, ma ora non c’è. Io vado da Antonio Pascale. Soltanto questo, ora, esiste. Io non vedo niente. Poi, però, sbaglio. Ci sono già venuta, alla Melbook Store, ma sbaglio comunque. Il numero civico è il 252, mi pare, comunque io sbarco al 251 e non vedo che, a destra, c’è il numero 252, quello che cerco, tanto più che la libreria è enorme, si fa notare, si presenta bene, mi chiama, quasi. Ma io no, non sento e mi dico, Toni (che è come mi chiamo io), mi dico, serissima, Toni, non farti gabbare dai numeri. Se questo è dispari, il pari sarà sicuramente di fronte. E così mi faccio tutta Via Nazionale a piedi, allontanandomi sempre di più da Antonio Pascale, incrociando gente, e sigarette, e il sole ancora dolcissimo – ti ringrazio – nonostante l’autunno incipiente, un sole che ricorda l’inverno del 1944 a Milano (dal 1908, dalla nascita di Berta, non si aveva un gennaio così), e le automobili a destra, lo smog, ogni tanto mi tappo la bocca, come la madre dell’io narrante di S’è fatta ora, solo non per lo spavento o per la sorpresa – come fa lei –, ma tentando di non inalare completamente i gas di scarico degli autobus e delle signore del centro, e mentre cammino mi imbatto contro la gente, ma ancora non vedo niente, e penso a Greenpeace nel racconto di Antonio Pascale, e rifletto su mele biologiche e manutenzione di affetti, e fantastico sulla figlia che ancora non ho – ma la voglio! – , e mi chiedo come le spiegherò che, insieme, vorrei insegnarle la vita e allo stesso tempo non dirle niente, perché lei si destreggi da sola. E penso ad Alfredo, il figlio dell’io narrante di S’è fatta ora, Vincenzo Postiglione, e penso al padre poliziotto, Pietro, che prima amava la gente e poi, negli anni Ottanta, perse il senso di tutto, sancendo la fine dei rapporti interpersonali perché la gente è cattiva, e a Brunella, Brunella e due figli, e due righe in una poesia, e il 31 dicembre alle porte, ma ancora quarantadue ore, e mi si spacca il cuore in più punti quando ricordo che Vincenzo ha creduto che fosse suo padre, l’uomo caduto per terra, steso per strada, con la gente che gli fa capannello intorno. E invece no, meno male, era solo il dottore delle tonsille, meno male, davvero, anche perché Vincenzo, intanto, per far fronte al dolore, si è sbloccato, finalmente, ed è diventato Tiramolla. E vissero per sempre felici e contenti – anch’io vorrei tanto, perdutamente vorrei che la vita finisse così. E intanto la gente mi incontra, e i palazzi altissimi, enormi, nobili, sobri, Roma romantica, Roma guerriera, le nuvole bianche sopra la Roma straniera, e me, la gente mi incontra e le macchine, e anche qualche piccione viaggiatore per strada, e dei cagnolini – io amo i cagnolini!, eppure non vedo neanche loro –, ma io non incontro nessuno, sono rinchiusa sopra l’appuntamento che mi aspetta, puramente felice, semplicemente estasiata, solo ogni tanto alzo la testa per ringraziare, Grazie!, e amo tutti, ma poi nessuno, mi rituffo nel piacere dell’aspettativa, mi ripeto tutte le domande che gli farò, e mi scrivo un mare di appunti sopra l’agenda blu che mi ha regalato mio padre – e penso papà sarai fiero di me –, non mi fermo nemmeno mentre scrivo gli appunti, e so che non riconoscerò la mia scrittura (asino di natura mi trapassa la mente), poi decido di rileggermi in quei cinque minuti tutti i libri di Antonio Pascale, così sarò preparatissima quando, tra pochi minuti, ci incontreremo. E lui capirà che io l’ho incontrato per amore letterario, non per riempire qualche spazio bianco dentro il cuore del mio computer. Riesco pure ad andare a sbattere contro un palo, lo giuro!, mentre mi appunto qualcosa. Poi comincio a riavermi, c’è qualcosa che non va, mi guardo intorno, la gente c’è – per un momento –, poi non c’è di nuovo, perché mi focalizzo sui numeri civici, nel mio peregrinare sono arrivata al numero 88, non è possibile che il 252 si trovi da questo lato, ci vorrebbe una strada lunga una vita, allora capisco che sto sbagliando tutto, per fortuna non è ancora tardi, non posso fare tardi con Pascale, non esiste, torno in dietro, fumo in fretta una sigaretta che mio padre mi ha regalato per il mio compleanno, per darmi forza, ritorno al punto di partenza, dove ho abbandonato il 60, trovo il numero civico 252 proprio nel punto in cui sono scesa dall’autobus, mi dico, Toni, sei proprio una scemina Toni, siccome sono felice non mi ingiurio con parolacce, mi dico solo, Sei una scemina, e rido. Finalmente ti ho trovato! Entro nella Melbook, vorrei gridarlo, Io vado a incontrare Pascale!, Pascale mi ha detto, Ci vediamo su, che c’è il bar, io ve lo giuro sbaglio scala col cuore che mi galoppa e spinge sino in gola, sbaglio scala e seguo una salita tortuosa, quasi a chiocciola, solo per trovare i bagni, e ho già il respiro affannato. Allora ridiscendo, prendo la seconda salita e, finalmente, sbuco nella zona bar, antistante a quella in cui di solito qui si fanno le presentazioni. Sono un pezzo d’acqua, come mi diceva mia madre quando ero piccola – ah, esserlo ancora, piccola piccola piccola, un’altra volta, con la mia mamma che mi cambia la canottiera e mi lava la schiena con amore. Ma non adesso, adesso voglio essere grande, Antonella Lattanzi 27 anni ieri, che ha ricevuto una mail da Antonio Pascale in risposta alla sua domanda, e grazie ad Alessandro Grazioli, ufficio stampa della minimum fax, sempre così disponibile, ha colto al volo la possibilità di incontrarlo. Voglio essere Antonella Lattanzi che ha un appuntamento con un grande scrittore, che ha letto tanti libri, ma mai abbastanza, e che sta tentando di diventare una vera scrittrice. Chiedo un bicchiere d’acqua al barista, non voglio farmi trovare in questo stato da lui, tutta scarmigliata e sudata. Voglio che mi conosca subito, che sappia che sono una giovane donna ancora incompiuta, ma desiderosa entusiasta corrosa dal desiderio di imparare. E innamorata, di un giovane uomo calabrese e della letteratura. E dei racconti di Antonio Pascale. Gli dirò tutto, voglio rimanergli nel cuore, perché lui nel mio c’è. Mi siedo al tavolino tondo con il bicchiere d’acqua come compagno di bevute, lo poggio con mano tremante sopra la tovaglietta di carta, sono proprio una tipa da racconti di Pascale, una di quelle ragazze che si incrociano a Roma, indipendenti ma anche no, con la borsa pesante che mi sega la spalla, perché chissà cosa può succedere, mi porto tutto dietro, non voglio perdermi nulla, della vita; ma spero anche che non sia lei, a mangiarmi. Ho uno zaino enorme, lo poggio per terra, insieme alla borsa nera che mi ha regalato mia madre – io e mia sorella ce l’abbiamo identica, ed è una cosa che mi fa commuovere, perchè mia sorella mi manca sempre, in ogni luogo –, mi sfilo la giacca e la felpa e le spingo con forza dentro lo zaino, mi sento nuovamente un personaggio di Pascale – questa cosa mi onora, dovete credermi, mi rapisce, mi esalta – , poi prendo dalla borsa l’agenda sulla quale mi sono appuntata un mare di domande – sempre troppe! – e continuo a scrivere, perché non voglio sprecare nulla di questo momento. Intanto però cerco di rassettarmi, e sfioro con amore il pendaglio tintinnante che mi hanno regalato i miei per il mio compleanno. Me l’hanno fatto recapitare via posta sabato scorso, direttamente nello studentato dove vivo abusivamente, in un pacco enorme pieno di regali e cose buonissime da mangiare. Il pendaglio è di metallo luccicante, con un nastrino viola, che è il mio colore preferito. Lo desideravo da anni, ma non l’avevo mai avuto prima d’ora: è una specie di amuleto sonoro, produce un rumore molto lieve, argenteo, come di acqua cristallina. È tondo, liscio, rassicurante. Mi piace farmelo schioccare tra le dita, stringendo pollice e indice sulla sfera sinchè questa, costretta dalla troppa pressione, spicca un piccolo salto nel vuoto, per poi tornare da me, grazie alla fascetta viola di sicurezza. Mi hanno detto che è il suono che producono le ali degli angeli, e che se lo indossi quando sei incinta, proprio sulla pancia, il bambino che covi dentro di te cresce molto felice, perché ritrova dentro il tuo corpo gli stessi suoni appena persi, quelli che sentiva quando era ancora in paradiso, prima di materializzarsi in te, quelli che accompagnavano la sua giornata quando ancora si divertiva su nel cielo, insieme agli angeli e altri bambini in attesa di una mamma. Come vorrei avere una bambina, come vorrei potermi permettere una figlia, proprio ora. Fantastico, poi torno in me.
MelbookStore è immersa nel sole, nonostante sia il 21 di novembre. È una bella giornata, fa caldo fuori e dentro, io mi sento estremamente felice, e carica, e pronta ad ascoltare e a domandare. Guardo con impazienza le scale, scrivo, la Melbook è tutta di una tonalità azzurra, molto rilassante, una specie di pavimento morbido, attutente, per terra, i libri sono dappertutto ti entrano dentro, e questo è meraviglioso, li vorrei uno ad uno, perché sono i miei amici. Vivere in un mondo tappezzato di libri. Libri come cartoni di uova per insonorizzare la vita. Certamente, se potessi farlo, non avrei più paura, né disperazione, né sonno. O, paradossalmente, dormirei molto meglio, perché ci sarebbero loro a proteggermi. Per ogni domanda che mi attraverserebbe la mente, avrei un rimando di mille voci amiche, pronte a rispondermi e tranquillizzarmi. Finita, sconfitta, debellata per sempre, la mia paura atavica di sprecare il mio tempo. Rimandi infiniti, libri su libri che si richiamano tra di loro, e chiamano me, la voce di Seneca e quella di Saramago, la mia Duras e Cervantes a combattere i mulini a vento. Adesso, scoccano le dodici e mezza, ora dell’appuntamento, e se è possibile il mio cuore accelera sempre un po’ di più. Puntualissimo, Antonio Pascale sbuca dalle scalette tortuose che ho calcato anch’io, poco prima. Il cuore mi salta contro il soffitto della libreria, attutita, la botta, solo dalla magnanimità dei volumi di scrittori antichi, e le gambe, se fossi in piedi, avrebbero di certo un mancamento. Si comincia, ed è ancora più bello di quanto immaginassi. Antonio Pascale è una persona splendida. Io lo giuro: non dico mai niente che non sia vero, almeno non quando scrivo, perché per me la scrittura è sincerità. Come dice Cechhov, non autobiografia, ma onestà. Se sei falso, il lettore se ne accorge.
Allora, se vi assicuro che non dimenticherò mai questa esperienza, e che Pascale mi ha preso il cuore e io ora non l’ho più; se vi dico che il 21 novembre, dalle 12.30 alle 13.45, ho vissuto un’esperienza ultraterrena, mi hanno portato via gli alieni, e che quando sono uscita dalla libreria ho telefonato al mio papà e quasi piangevo dalla felicità; se vi dico che amo ciò che Pascale è e dice; se vi dico che dopo, sino a casa, ho volato, vi prego credetemi, perché non sto esagerando. Vi prego credetemi perché, come lui prima d’ora, in tutta la mia vita forse soltanto un’altra scrittrice. Una che, a me e a lei, ci ha fatte la medesima stella. Sapete quando Asterix e i suoi avevano paura che il cielo gli cadesse sopra la testa? Ebbene, il cielo cadrà, se leggerete Pascale, con la luna il sole e la terra. Vi cadrà con amore e dolore, come solo sanno far crollare i poeti. E adesso, godetevi lui.

A.L.: Ciao Antonio, grazie di essere venuto. Vuoi raccontarci come hai cominciato a scrivere?
A.P.: Se devo essere sincero, non c’è stato un momento preciso… Ricordo solamente che avevo un amore fortissimo verso la fotografia e il cinema. Mi sembrava, allora, che tutto quello che vedevo potesse essere già rappresentato attraverso questi due mezzi, e quindi che la letteratura quasi non avesse più ragione di esistere. Provai anche a fare il regista, da giovane – in realtà nasco come videomaker –, feci un paio di video, vinsi anche dei premi. Ma poi, essendo molto pigro, non avevo tanta voglia di andare a cercare gli attori, i soldi, di montare il set e via dicendo. Tutto quello che generalmente fa la bellezza del cinema, in pratica, io non lo sopportavo, perché mi sembrava solo una fatica. Poi stavo a Caserta, il sud, la provincia: tutto ciò accresceva la difficoltà. Allora cominciai a scrivere dei soggetti, e vidi che forse andava meglio così, ch’era più semplice. I miei soggetti all’epoca si ispiravano un po’ ad alcuni scrittori americani che leggevo, cioè Bukowski e John Fante. Ovviamente io poi sono astemio, non gioco ai cavalli, ho una specie di timore, di pudore etico di andare con le puttane, quindi non ero Bukowski, non lo ero, ero una persona di Caserta che voleva approfittare di una voce e farla sua, che è sempre una cosa un po’ sbagliata: infatti, i racconti erano brutti. E poi pian piano mi ricordo che ho smesso di scrivere e ho cominciato a leggere, leggevo solamente, moltissimo. Così ho capito che intorno a me c’erano dei modelli di riferimento molto forti e che la scommessa era trovare un metodo, una mia maniera per riprendere questi modelli e farli propri, cercare una propria voce: così ho cominciato a scrivere. Ho cominciato a scrivere nell’89, quando sono arrivato a Roma. Sempre nell’89 conobbi i ragazzi di Minimum Fax, che all’epoca era ancora una rivista, e cominciai a collaborare con loro, con la rivista Minimum Fax, via fax. Poi mettemmo su la casa editrice tutti insieme, e un giorno arrivò Fofi, il quale disse che facevamo belle cose e ci chiese, Perché non facciamo una rivista insieme?. Così ci conoscemmo e lui subito si convinse che io fossi un poeta. Ma io non ho mai scritto poesie, se si esclude una per mia mamma nel ’77, in occasione della festa della mamma. Nient’altro. Quando, allora, lui mi disse, Portami le tue poesie, io risposi che non ne scrivevo, sinchè un giorno Fofi dovette fare un’antologia di scrittori del sud. Ancora una volta mi chiese di portargli una poesia per la raccolta, ma io ancora una volta non ne avevo. Allora i ragazzi di Minimum Fax gli proposero di leggere i miei racconti. Lui acconsentì. Io gliene portai tre, gli unici tre racconti che avevo scritto. Uno lo buttò nel cestino, due me li pubblicò sullo “Straniero”, la sua rivista. Da qui, pian piano, sono entrato in questo ambiente, e qualcuno ha cominciato a credere che potessi fare di più. Mi hanno dato fiducia e ho scritto La città distratta, il mio primo libro, che uscì con l’ancora del mediterraneo , e poi da allora ho capito che ero considerato uno scrittore, che forse lo ero, che potevo fare di meglio, potevo migliorarmi, e iniziò tutto così.

A.L.: Sei contento adesso? Sei soddisfatto di quello che fai?
A.P.: Sì, molto, sono molto contento, perché il mio è un lavoro di ricerca di una voce, una sistemazione, una grammatica, che magari uno non possiede in maniera innata. La mia è soprattutto una riflessione su un modello culturale che è quello del sud: non potevo inventarmi il modello americano, allora ne ho cercato uno mio. Ovviamente ci sono degli scrittori che mi piacciono tanto, americani come italiani, tutto sta nel trovare questa voce, questa misura, tra un modello che mi apparteneva e un altro distante.

A.L.: A proposito di voce, leggendo, per esempio, la prima edizione de La manutenzione degli affetti e il tuo ultimo libro, S’è fatta ora , mi è parso di ravvisarvi una forte crescita, personale, culturale, artistica, anche per quanto guarda la lingua. La lingua della Manutenzione, io credo, a mio avviso bellissima, è insieme più dolorosa e più nazionale, mentre quella di S’è fatta ora in alcuni momenti usa anche dei dialettismi, ma è permeata di un tono poetico innato, nascosto, che la pervade completamente.
A.P.: Sì, infatti quando pubblicai Passa la bellezza , dove uso una lingua più regionale, fui accusato di tradimento della lingua, perché La manutenzione degli affetti possiede invece un tono più alto, più letterario. Io non credo di aver tradito la lingua: per me essere uno scrittore vuol dire ricercare, sperimentare dei modelli, sperimentare delle soluzioni. Ecco, per questo libro [S’è fatta ora n.d.i.], mi sembrava giusto adoperare un altro linguaggio, che è quello affabulatorio, orale, anche perché in questo libro ogni storia è già una metafora in sé. È un ragionare sulle metafore continuo, dichiarando continuamente al lettore, Questa è una metafora, non è che ti sto ingannando. Finchè queste metafore diventano, crescono in maniera esponenziale, dunque si annullano: questo è il gioco che riesce in questo libro.

A.L.: Come il troppo bene e il troppo male, che si invalidano a vicenda, producendo un vuoto di senso?
A.P.: Sì, come il troppo bene e il troppo male. Questo accade perché le troppe metafore si annullano, e quindi resti scoperto dalla proiezione della metafora.

A.L.: Mi ha colpito molto come l’io narrante di S’è fatta ora sia inscindibilmente legato alla famiglia, alla figura del padre, della madre, del fratello. Le storie che compongono S’è fatta ora non sono, io credo, storie a sé stanti. È come se costituissero un romanzo unitario, nel quale il protagonista è raccontato da angolazioni diverse, e anche attraverso la sua storia familiare. Quanto è importante la tua famiglia nella tua vita e nella tua scrittura?
A.P.: Questo è un libro d’amore secondo me. E io credo che tutte le storie d’amore in senso lato e in senso stretto abbiano soltanto una matrice, cioè quella del viaggio, indietro e in avanti nel tempo. Quando ti innamori di una persona, le chiedi di portarti indietro nel passato, per farti rivivere i momenti belli, o, al contrario, per farti ritrovare i momenti in cui sei stato infelice. Quindi le chiedi di stare nel passato e contemporaneamente di essere nel presente, a volte le chiedi anche di rimanere nel futuro. Quindi le domandi di viaggiare del tempo, no?, come i romanzi di fantascienza. Infatti l’amore è fantascientifico, a volte. In questi movimenti di macchina del tempo non puoi pensare soltanto che ci siamo io e te, ma devi pensare che tu sei stata ferita o conquistata da una scena primordiale, e dunque è giusto andare a scavare, a vedere, di che scena si tratta: quando lo fai, magari scopri che questo fondale, questa cornice, magari riguarda la tua famiglia, il tuo passato, il tuo vissuto. Dunque non posso, se scrivo, se vivo una storia d’amore, parlare di me e te che ci amiamo, ma devo parlare di me e te nel tempo, di come siamo cambiati, di come la nostra esperienza è levitata, durante tempo. Per forza di cose, all’interno di tutto questo, la famiglia c’è. C’è perché è la fonte primordiale di tutti i disturbi psicosomatici, come diceva Freud, perché è una specie di necessità tragica, di cui non puoi fare a meno.

A.L.: A proposito, in S’è fatta ora compaiono continui richiami a certi gesti, a certi modi di pensare e vedere il mondo che, dai genitori, si concretizzano, si spostano anche nei figli. Parlo per esempio della frase che il padre di Vincenzo, dagli anni Ottanta in poi, ripete continuamente, e che lo caratterizza, “Che brutta cosa ‘a gente” (simbolo di una definitiva disillusione nei confronti del mondo); oppure del gesto retorico di chiudersi la bocca con una mano, tipico della madre quando qualcosa la preoccupa o la stupisce, gesto che Vincenzo poi si ritrova a compiere in prima persona per gli stessi motivi. In tal modo, in S’è fatta ora, ci accorgiamo man mano di ritrovare gli stessi atteggiamenti, le stesse movenze, la stessa emotività dei genitori nei figli, e poi nei nipoti, di generazione in generazione. E’ anche grazie a tale particolarità che tutti i racconti si incastrano perfettamente tra loro, creando una storia unica, quella dell’io narrante e del suo mondo.
A.P.: Sì, infatti il libro nasce così. C’è un personaggio, Vincenzo Postiglione , che sta diventando padre, e deve quindi pensare a come trasferire la propria esperienza al figlio. Se non fa il punto di questa esperienza non può trasferirla, no?, dunque cerca di ricordare i cinque momenti più o meno topici della sua vita, che secondo lui l’hanno formato, in modo da poter cominciare a seguire il figlio già mentre nasce, accompagnarlo durante gli anni della crescita, e quindi trasferire su di lui la propria esperienza. Nonostante ci si impegni tantissimo, Vincenzo non ce la fa comunque, poichè l’esperienza è soggetta a continue revisioni, a continue modifiche. Quindi lui, con tutta la perfezione dei ricordi, con tutto il fatto che i ricordi combaciano, non ce la fa ugualmente a trasferire tale perfezione al figlio, e rimane sempre incerto su come muoversi. Ora, in questo modo mi sembrava di mettere in scena un personaggio tragico, un personaggio che ha la ragione dalla sua parte, che riesce a ricostruire tutto con la ragionevolezza, ma che però, poi, inevitabilmente, inciampa nei momenti in cui questa ragionevolezza deve passare ad altro, mutare di grado. Questo è un quadro tragico, penso.

A.L.: Alla fine però Vincenzo si risolve, io credo positivamente, quando capisce che l’amore è più disperdere che costruire.
A.P.: Sì, “l’amore è più dispere che investire”. Questo vuol dire che l’amore è gratuito, se funziona non è strategico, è gratuito, fa parte del desiderio, non della strategia. Lo diceva anche Masud Khan , un famoso psicanalista che si curava sempre del dolore femminile, del masochismo femminile – non un masochismo fisico, ma psicologico… –

A.L.: … come Brunella !
A.P.: Sì, come Brunella, appunto. Masud Khan diceva proprio questo: C’è chi l’amore lo fa per desiderio, chi per strategia. Questi ultimi sono i perversi, cioè coloro che non si relazionano con una persona, ma la rendono un oggetto – strategico. Secondo me, invece, se l’amore si disperde non è strategico, ma gratuito, quindi fa parte del desiderio, che è generoso quando funziona.

A.L.: Per quanto riguarda il sentimento, credo che l’amore de La manutenzione degli affetti sia completamente diverso da quello di S’è fatta ora. L’amore de La manutenzione è molto più doloroso, più sofferto, più profondo, da un certo punto di vista; mentre il protagonista di S’è fatta ora cerca, secondo me, di distaccarsi un po’ dall’aspetto tragico del rapporto con la donna.
A.P.: Sì, certo certo. Infatti de La manutenzione degli affetti è stata pubblicata da poco una nuova versione , in cui sono contenuti tre racconti nuovi. Uno di questi si intitola Stai serena, e racconta il punto di vista della moglie del primo racconto. Lo scopo è di recuperare un doppio punto di vista sull’amore, poiché in fin dei conti il punto di vista sull’amore è sempre doppio.
In questi nuovi racconti, allora [di S’è fatta ora, n.d.i.], c’è l’accettazione di un limite, più che una volontà di potenza (che si concretizza in frasi come Io ti amerò, faremo delle cose bellissime, come dice anche Battiato nelle sue canzoni). L’accettazione del limite vuol dire che, siccome non possiamo prometterci molto, l’importante è che siamo leali, che non abusiamo del nostro fascino, delle nostre promesse. Ecco, cerchiamo di essere leali con noi stessi, perchè questo possiamo fare.

A.L.: Questo concetto viene fuori, nel tuo libro, per esempio, quando parli de La cura.

A.P.: Sì, è vero. Io già da piccolo, da giovane, avevo una specie di rancore per questa canzone di Battiato, perché tutte le donne che incontravo piangevano veramente quando l’ascoltavano, erano davvero innamorate di questa canzone. Le mie fidanzate l’ascoltavano in macchina, e mentre suonava mi dicevano "Zitto zitto, non parlare, fai finire questa canzone!". Poi, appena finita, mi guardavano male, perché stavano pensando, Tu non sei un uomo così. La serata era rovinata, dopo, non c’era nulla più da fare: io le portavo a mangiare la pizza e Battiato diceva “scioglierò i tuoi capelli come trame di un canto”. C’era troppa differenza! Io mi interrogavo, però non capivo che cosa fosse realmente questa differenza sinchè non ho letto Ivan Ilic, che è uno stranissimo intellettuale, mezzo prete, mezzo laico: non si capisce chi è Ivan Ilic, perciò è fantastico. Lui diceva, Io non sopporto La cura, perché la cura presuppone sempre uno schema molto fisso, cioè, Io sono il medico e tu sei malata, tu sei il paziente. Presuppone che tu, senza la mia cura, non ce la possa fare con le tue gambe. Io ti dono e tu ricevi – schema fisso e immutabile. Secondo questa teoria, soprattutto, se sei malata e c’è un male, io estirperò il tuo male dal mondo, io estirperò il male da te. Queste proposizioni hanno due ingenuità. La prima riguarda la verità assoluta che non si può estirpare il male dal mondo, non ce la puoi fare, anche mio figlio che fa il catechismo lo sa, il diavolo c’è, io sono laico quindi ancora peggio, no? La seconda ingenuità è che io non ti do, non ti garantisco la responsabilità individuale. Allora, se questo concetto di cura lo trasferisci sul piano sociale ed economico, ti rendi conto che anche Bush fa la stessa cosa, vuole estirpare il male dal mondo, quindi vuole imporre il suo bene, quasi come se fosse un dono da accettare per forza. Di conseguenza vìola lo spazio della responsabilità individuale. Allora è meglio sostituire alla parola “cura” la parola “manutenzione”, che è più onesto. Perché, cosa fa la manutenzione? Non ti dice “scioglierò i tuo capelli come trame di un canto”, ma ti dice, Guarda che hai una piccola cosa nei capelli, ora te la tolgo. È più tecnico, ma anche più attento, più vigile, rispetto alla Grande Promessa. Perché la Grande Promessa è anche il Grande Inganno a volte. È meglio essere più attenti, più vigili, più attenti alle crepe, che non intervenire con una promessa di miglioramento totale.

A.L.: Un’altra cosa che mi ha colpito molto è che, sul modello di Cechov [che tanto adoriamo entrambi], tu liberi la scrittura dei fronzoli, delle superficialità, delle esuberanze, o di tutto ciò che può essere chiamata “calligrafia”, nel senso stretto del termine cioè bella scrittura per il piacere del suono che produce, scrittura per il gusto, per il ritmo della scrittura stessa e nient’altro. Io credo che, così liberata, la tua scrittura sia poetica e anche molto pratica allo stesso tempo.
A.P.: Sì, ti ringrazio. La mia dovrebbe essere una scrittura popolare che, se esistesse in Italia, se fosse viva, dovrebbe avere questo tipo di traguardo: io comunico con tutti, sono popolare, non voglio essere elitario, ma proprio perchè sono popolare mescolo un registro alto e uno basso, ho un punto di vista che è rispettoso dell’ambiente…, sono popolare, sono funzionale, generalmente non sono bello, ma sono funzionale. Il tavolo non è che ricordi chissà cosa, il tavolo ti fa venire voglia di mangiare perché è bello. Capisci?, L’emozione nasce dal fatto che è funzionale. Non è che la sedia ti ricorda chissà che cosa: ti siedi. Allora, questo tipo di funzionalità è anche emozionante, ma è nello svolgimento della storia che si produce l’emozione, il fatto che tu frequenti quella storia, che sei tu quel personaggio, insieme, e insieme provi delle emozioni. Non il contrario, cioè ti devi per forza emozionare perché io faccio succedere una cosa emozionante. Se chiedi a mio nonno, ma anche ai tuoi genitori, se erano muratori, se erano artigiani, Che emozione volevi che si provasse quando hai fatto questa sedia, tanti anni fa?, quelli ti ridono in faccia, Ma che emozione, ti rispondono, io voglio fare la sedia. Allora, questo fatto di voler fare la sedia, non l’emozione, è popolare. A me piace molto di più. Io ti racconto una storia, se poi ti emozioni va bene.

A.L.: Io credo che in questo modo ci si emozioni molto di più.
A.P.: Sì, certo, perché l’emozione non è indotta da una promessa del tipo “scioglierò i tuoi capelli come trame di un canto”. No, te lo devo dimostrare che agisco così.

A.L.: È molto bello anche che nel tuo libro si percepisca tanto bene il passaggio del tempo. Gli anni Settanta, Ottanta, Novanta, e l’epoca contemporanea sono caratterizzati in maniera precisa, efficace, istantanea. Dici, per esempio, che nei Settanta non c’erano le strade, mentre negli Ottanta si perdeva la concezione della saggezza popolare.
A.P.: Sì, negli Ottanta c’erano le strade, e c’erano anche le superstrade che poi sono state interrotte per le speculazioni, no? È tutto così, a un certo punto si è persa la misura.

A.L.: Si è perso anche il rapporto…
A.P.: … con le cose…

A.L.: … con le cose, sì, con la saggezza dei nonni, come dici nel tuo libro. Doveva essere molto tranquillizzante, quando si poteva avere un riferimento, rifarsi a qualcuno nel momento del dubbio, sapere, per esempio, che il nonno conosceva come si mette la rotellina alla bicicletta per non farla sporcare [vedi racconto dal titolo S’è fatta ora, n.d.i.].
A.P.: Sì, era qualcosa che ha a che fare con la misura, con la conoscenza e la padronanza del mondo. Adesso non succede più, adesso c’è l’Ikea, che dovrebbe sostituire tutto questo. L’Ikea potrebbe fare in modo che tu partecipi al processo di produzione costruendo una parte dell’oggetto. Sarebbe anche una filosofia intelligente, però poi non ce la fai più, non sai più costruire, non sei più pratico.

A.L.: Allo stesso modo, amo della tua scrittura il fatto che, invece di parlare degli anni Settanta, circumnavigando il tema centrale e se mai senza arrivare dritto all’anima del lettore, tu invece riesci a mettere in scena gli anni Settanta, senza descriverli, facendoceli sentire, vedere, assaporare. Scrivi appunto che gli anni Settanta sono il momento in cui non c’erano ancora le strade, e gli anni Ottanta quello in cui invece ci sono. Inoltre è molto bello il rapporto del protagonista, Vincenzo, con suo figlio. Quasi tutti i racconti finiscono cercando di trovare…
A.P.: … una misura per il figlio, che però non si trova quasi mai.

A.L.: Sì, che non si trova mai. Mi piace molto per esempio il pezzo sul natale, quello in cui il padre cerca di spiegare al figlio che i vestiti, se si stropicciano, si fanno male, e poi è appunto qui che dice “L’amore è più disperdere che investire”.
A.P.: Sì, il padre pensa, Ma no, in fin dei conti non fa niente che si fanno male. Cioè non sa se è giusto che il figlio provi lo stesso dolore che anche lui ha provato nello stesso modo, lo misuri col suo stesso metro di giudizio. Allora preferisce dire, Non fa niente, anche se vestiti li stropicci, anche se li butti una volta per terra non fa niente…

A.L.: Io credo che questo concetto c’entri anche con la questione della società, molto presente nei tuoi racconti. Prendiamo per esempio la storia di Peppe u’ stuort. Per la società, questo ragazzino di strada, questo piccolo malavitoso, non ha alcun futuro. Sicuramente morirà molto presto, non c’è scampo, pensa la gente. E alla fine muore veramente molto giovane. Invece, per quanto riguarda Brunella, la fidanzata del protagonista, la società non colpisce nel segno. In paese si dice, infatti, che questa ragazza è così bella che diventerà un’attrice, oppure si disperderà in qualche vizio, poiché questo è il suo destino. Invece Brunella si sposa e ha due figli. In entrambi casi, se pur diversi, racconti una società che condanna l’individuo a un determinato ruolo.
A.P.: Sì, questa è la società di provincia. Il problema della provincia è che ti condanna sempre.

A.L.: Però, nel primo caso la provincia ha ragione, mentre nel secondo sbaglia.
A.P.: Sì, è così. Per Peppe u’ stuort è una cosa un po’ diversa, perché lui proviene dal ghetto, e dal ghetto non si esce; mentre invece se sei fuori dal ghetto puoi realizzare i tuoi sogni più facilmente. Brunella in fin dei conti è una fuori da quel ghetto, è una bella ragazza di provincia che è riuscita a fare una cosa diversa. Peppe u’ stuort invece è molto più vittima delle circostanze. Lui si era scelto questo destino, e aveva anche contribuito ad alimentare questo tipo di credenza su di lui: poi, però, queste circostanze l’hanno incarcerato.

A.L.. Un’altra cosa meravigliosa del tuo libro concerne gli sguardi della la gente di Roma. Quando cammino per strada, a me capita sempre di pensare ciò che tu poi scrivi in S’è fatta ora, e cioè che nelle strade della capitale si incontrano tantissime persone, e capita che tu immagini la vita di ognuna di queste persone – io le immagino sempre –. Ma questa è una cosa che da un certo punto di vista ti spersonalizza tanto. Ti restringe il tempo.
A.P.: È proprio così, ti spersonalizza tanto che alla fine non sai più neanche bene chi sei tu. È vero.

A.L.: Invece, la dimensione di provincia ha un tempo molto più dilatato. Per quanto riguarda, per esempio, il primo racconto, il tempo è sintomo di condizione sociale. I bambini “cattivi”, di strada, hanno tutto il tempo del mondo. Per i bambini “buoni”, invece, che hanno alle spalle una famiglia solida, a un certo punto, sempre troppo presto, “si fa ora”. Devono mettersi la maglietta intima…
A.P.: ..sì, il cappello col paraorecchie, la sciarpetta, cioè una protezione piccolo borghese, sinchè si faceva ora.

A.L.: Quindi esiste questa dicotomia potremmo dire crudele, tra il bambino che, da piccolo, non aveva tempo, ma che da grande ha avuto la possibilità di gestirlo come voleva, di realizzarsi, quindi ha avuto, come per contrappasso, tutto il tempo del mondo a disposizione; e il bambino “cattivo”, che da piccolo aveva tutto il tempo del mondo, ma da grande non ne ha avuto più, ne ha avuto pochissimo, ed è morto molto giovane.
A.P.: Questo accade perché nel primo si è sviluppato il senso della finitudine, il “s’è fatta ora”, il limite. Quel tipo di limite che alcune persone più anziane, nonni, padri, si davano in tempi passati, un limite che significa: più di questo non si può andare, basta. Finitudine malinconica anche, che faceva sviluppare molto più la coscienza di chi eri tu, in confronto agli altri. Invece, nel caso opposto, la totale mancanza di tempo non ti rendeva cosciente delle tue azioni, potevi far tutto. Mancava una regola. Infatti, se ci rifletti, la camorra è una regola, no?, la camorra ti dice le cose che puoi fare o non fare, la camorra prende le persone che non hanno una famiglia, che sono fuori dalla società, che non fanno niente dalla mattina alla sera, prende queste persone e gli dice, Tu così non puoi più continuare, hai bisogno di una regola, e questa regola te la diamo noi. Coloro che ricevono questa proposta spesso sono contenti di accettarla, perché non hanno un’altra regola, capisci? Però alla fine questo tipo di regola ti uccide, l’altra regola, invece, che è la regola che tutte le cose belle finiscono, ti dà al contrario una possibilità in più di salvarti, di vederti, più che altro.

A.L.: A questo punto, dato anche il tema affrontato, mi vien spontaneo chiederti cosa pensi della situazione attuale di Napoli. Perché credi se ne stia parlando tanto proprio ora?
A.P.: Di Napoli, e della situazione napoletana, si parla sempre, in un modo o nell’altro. Io penso che Napoli abbia un’industria, che è la camorra – la camorra è un’industria a tutti gli effetti, con i suoi riti, con i suoi meccanismi molto cruenti, ed è un’industria che produce. I prodotti della camorra vengono consumati in tutta Italia, c’è poco da fare. Per esempio, per quanto riguarda la droga, a Milano, qualche tempo fa, ho trovato a tre angoli di strada tre spacciatori che mi offrivano della roba proveniente da Napoli. Allora non è possibile che io consumi droga a Milano e mi indigni per la carneficina napoletana: le due cose sono legate, non c’è un modo per slegarle. Lì c’è una trincea cruenta, dove si fa la guerra, e poi i prodotti vengono raffinati in tutta Italia. Se li consumiamo, siamo complici. Quindi, piuttosto che dire come fa schifo Napoli, dobbiamo fare molta più attenzione a non consumare questi prodotti, se abbiamo a cuore il bene della città di Napoli. In fin dei conti Giorgio Bocca, con quel titolo, Napoli siamo noi, un po’ aveva ragione su questo – anche se poi il libro aveva delle superficialità –, aveva ragione in questo: Napoli siamo noi, perché Napoli è il riflesso dei nostri cattivi consumi. La malavita produce, produce degli oggetti, non chiede soltanto il pizzo, fa i vestiti falsi, i cd falsi, i dv falsi, la droga. Quindi se tu la consumi sei complice.

A.L.: Un altro momento bellissimo del tuo libro è quando si parla della miglioria della morte, cioè quel pudore personale per il quale un uomo che sta per morire, quando si trova proprio in fin di vita, ha un picco di miglioramento assoluto, strabiliante, tanto che sembra quasi non morirà più, sembra tanto vivo come non era mai stato sino ad allora. Questo accade per un motivo dolcissimo, si verifica perché l’essere umano, di solito, vuole che i suoi cari conservino un bel ricordo di lui, non un ricordo di morte e di decadenza. Per questo, quando sente che le forze lo stanno abbandonando e che non c’è più nulla da fare, l’uomo ha un moto come di forza, verso l’alto, che serve a contrastare la parabola discendente della morte, che termina con l’ultimo battito del cuore.
Nel tuo libro, un bambino incappa in questa miglioria troppo presto, ne viene colpito, travolto, e poi se la porta dentro per sempre, cercando di scovarla, o temendo, più che altro, di scovarla in altre persone vicine a lui. Questa ricerca diventa ossessiva, compulsiva, tanto che i genitori si arrabbiano perché continua pensare troppo alla morte e, secondo il padre, non riesce a godersi la vita. Bene, io penso – dato che il libro, come dici, è pieno di metafore –, penso che anche questa sia un’ulteriore metafora della vita: cioè molto spesso la gente non accetta che si rifletta troppo perchè chi riflette troppo, a volte, fa paura.
A.P.: Sì, per quanto riguarda il tipo di riflessione, il bambino subisce entrambe le conseguenze, e cioè: se un eccesso di riflessione lo blocca, l’assenza di riflessione, di contro, lo preoccupa. Quindi il bambino sta tra la preoccupazione e l’immobilità per lungo tempo, e si sblocca solo quando vede il padre: in questo frangente, infatti, deve trovare un modo per affrontare anche il dolore . Ha paura degli eccessi di vita perché gli ricordano l’idea della morte, e quindi cerca di avere un tono più basso, però d’altra parte non riesce ad avvicinarsi veramente al dolore, perché quello della miglioria è un dolore primordiale che lo ha segnato una volta per tutte. Questa linea mediana stabilisce anche come lui amerà, nel futuro, come lui si comporterà con il prossimo, nel futuro, a cosa cercherà di fuggire razionalmente, a cosa andrà incontro istintivamente. L’io narrante è un personaggio così, razionale e istintivo insieme: si abbandona alle gioie delle feste, però poi pensa che deve trovare un suo percorso. Ha una strada illuminata che gli dice, Quello è il traguardo, cerca di raggiungerlo e cade sempre. Queste contraddizioni sono, secondo me, le contraddizioni della modernità. Abbiamo molta consapevolezza di noi, ma continuiamo a sbagliare, non possiamo dire che siamo esenti da sbaglio.

A.L.: A proposito della dicotomia di Vincenzo: un momento topico è secondo me quello in cui l’io narrante, preso in questo continuo migrare di feste in feste, di terrazze in terrazze (migrazione che lo spinge a non credere in nessuna grande storia d’amore), si rende conto che alla fine il suo pensiero è uno solo: E vissero felici e contenti.
A.P.: Sì, perché Vincenzo ci crede davvero, all’amore, alla fine ci crede che quella è una salvezza, ma non riesce a realizzarla in maniera completa. Ci crede molto, ma questo credere molto gli sembra una promessa troppo grande che non può permettersi, allora questo alzarsi e abbassarsi crea il conflitto tra il personaggio e quello che lo circonda. Il protagonista è un personaggio abbastanza moderno, penso, uomo del mondo che viviamo in questi giorni: prima, infatti, il sistema di riferimento era più stabile. Era tutto più semplice.

A.L.: Un’altra metafora delle relazioni umane che mi sembra perfetta: quando l’io narrante e Brunella sono in macchina, lui gli dice che la lascerà, lei piange e lo prega di non lasciarla, ma poi è proprio lei a lasciarlo, un anno e mezzo dopo. Questa scena è inoltre esemplare dell’alternarsi, interno al tuo libro, di momenti di humor, di profondità estrema, di poesia, dolore, realismo. Nella scena del padre, per esempio [vedi sopra], la tua scrittura ha un effetto di straniamento totale, che riesce a creare nel lettore prima l’attesa e poi la sorpresa, però mai il colpo di scena a tutti i costi. Io credo questo sia un aspetto fondamentale della letteratura vera.
A.P.: Sì, io penso infatti che il modello del colpo di scena, che predilige l’intreccio, la trama molto piena, volendo però è anche un po’ forzato, tanto che a volte ci accorgiamo che è fasullo. Tutti fanno delle forzature quando scrivono, però è meglio cercarne di inaspettate, piuttosto che di palesemente ricreate sin dall’inizio. Quando ciò accade si ricrea il modello a tre atti, per il quale: primo atto dichiaro l’obiettivo, secondo lo fallisco, terzo lo recupero grazie a un’analisi di coscienza. Bello è bello, ma non sempre è interessante, poiché non tutto va così, non tutto va nei tre atti, non sempre è dimostrabile che si vive in tre atti.

A.L.: Come fa Cechov ne La signora col cagnolino.
A.P.: Certo! Lì, infatti, non c’è lo schema dei tre atti, ma un momento di coscienza in cui il protagonista si dice, In fin dei conti faccio una vita orribile. Prima, Gurov mangia l’anguria, e Anna Sergeevna piange in maniera disperata perché ha fatto una cosa brutta ed è sicura che adesso lui non la stimerà più. Di contro lui, annoiatissimo, da uomo di mondo qual è, mangia l’anguria senza badare alle lacrime della sua donna, tanto che il lettore non può che biasimare il comportamento di Gurov. Invece, dopo capita anche a Gurov la stessa cosa quando, uscendo dal suo circolo, dice a un amico, Ho conosciuto una donna bellissima, e quello gli risponde, Questo melone non era tanto buono. Allora Gurov, che sta dalla parte della Sergeevna, decide di andarla a trovare, ma, scoprendo la verità, non ha le spalle per sostenerla. Questa è la bellezza di Cechov, no?

A.L.: Bellissimo! Anch’io amo Cechov. Sono molto felice di averne parlato con te.
A.L.: Adesso, per creare un effetto di straniamento nel lettore [scherzo!], ti faccio una domanda semplice semplice. Qual è la tua giornata tipo?
A.P.: Lavoro al ministero, sono ispettore, stimo i danni prodotti dalle calamità naturali…

A.L.: … come nel libro!
A.P.: Sì, come nel libro. Faccio un part-time, mezza giornata di lavoro, poi ho un bambino da andare a prendere, la vita familiare. Cerco di leggere nei ritagli di tempo, oppure, quando viaggio, leggo tanto, sempre, e anche la mattina presto… Non so come faccio a scrivere, sinceramente. Se adesso penso che devo fare una cosa, non ho proprio tempo per farla, ma vedo di recuperarlo in questo spazio. Dunque, non ho un tempo per la scrittura, ho solo un tempo un po’ recuperato.

A.L.: Ma se potessi, quando ti piacerebbe scrivere: la mattina, il pomeriggio, la notte?
A.P.: Mi piacerebbe scrivere la mattina [anche a me!, n.d.i.]. La sera no, perché sono stanco, c’è l’Isola dei famosi, devi un po’ abbandonarti, devi un po’ dissolverti, la sera.

A.L.: Tu credi che leggere sia fondamentale per chi vuole scrivere?
A.P.: Assolutamente sì. Ma certo, non si può essere solo scrittori, si è scrittori e lettori insieme, no? Devi confrontarti con le persone, devi sapere come si scrive adesso, se sei prima o dopo le persone, o se sei allo stesso punto. Non esiste uno scrittore senza che questi sia anche un lettore, tranne che in rari casi di geniacci. Ecco, allora sì.

A.L.: Quali sono i tuoi scrittori preferiti, allora, Bukowski…?
A.P.: Bukowski non lo è più, cioè non lo consiglierei più alle persone. Consiglierei di leggere Cechov, per esempio, tanto, consiglierei di leggere adesso Alice Munro, una scrittrice canadese che ha scritto Il percorso dell’amore, Amico nemico amante, In fuga, una scrittrice che sta vent’anni davanti a noi, venti anni, veramente. Ha settantacinque anni, adesso, vecchierella, molto simpatica. Consiglierei di leggere Coetzee, per le riflessioni che fa sulla scrittura, e anche Sandro Veronesi, che mi piace molto come scrittore italiano, consiglierei di leggere alcuni scrittori italiani come la Ginzburg, Parise, Bianciardi. Bukoswski non lo consiglierei più, adesso, Fante sì, Bukowski no. Troppo volutamente sporco per essere convincente.

A.L.: Saramago?
A.P.: Sì, è molto bravo, però non rientra proprio nel mio gusto, non mi piace tanto.

A.L.: Per esempio a me è piaciuto molto Il vangelo secondo Gesù.
A.P.: Sì, certo è molto bello, però non rientra completamente nel mio gusto, che è più anglosassone.

A.L.: E il cinema?
A.P.: Il cinema mi piace tanto. E siccome mi piace tanto ne ho anche pudore, come per la poesia. Mi piace tanto e non la scrivo, perché la rispetto molto e penso che potrei sporcarla col mio segno poetico. Preferisco non farla per amore. Anche col cinema è così. Mi piacerebbe fare il regista, ma per amore non lo faccio, potrei fare lo sceneggiatore, che è un’altra cosa.

A.L.: Ora cosa stai facendo?
A.P.: Un paio di sceneggiature, poi sto scrivendo un romanzo per Einaudi, che uscirà credo tra un anno e mezzo, due. Poi giornali, convegni…

A.L.: Sei felice, allora?
A.P.: Contento, contento. Felicità è una cosa diversa, contento sì.

A.L.: Un’ultima cosa. Mi dici un ricordo della tua vita che ti è particolarmente caro?
A.P.: Tutte le cose rituali: il natale, l’idea di preparare qualcosa che durerà per sempre. Il natale mi piace molto. La preparazione dell’albero, il presepe, il pranzo di natale, ho sempre la sensazione che questa cosa sia per sempre, che sia epica, che cioè tornerà sempre nello stesso momento. Questa è una cosa che mi consola molto, che mi protegge molto dalle angosce.

A.L.: A proposito di ritualità, allora, ti manca un po’ Caserta?
A.P.: Più che mancarmi, cerco di riprodurre un rituale. Perché il rituale mi salva dalle preoccupazioni, dalle angosce. Tutte le cose legate ai rituali mi fanno stare meglio.

A.L.: Quali libri e quali film consigli?
A.P.: Per i film, consiglierei Il cacciatore di Cimino, Turista per caso di Kasdan, Elephant man di Linch. Per i libri: Storia della citta di Munfor e i racconti di Cechov.

Ti ringrazio tantissimo!

TITOLO: S’è fatta ora
AUTORE: Antonio Pascale
CASA EDITRICE: minimum fax 2006
COLLANA: nichel n.26
pp. 126
euro 9.50

BIBLIOGRAFIA DI ANTONIO PASCALE
La città distrutta (l’ancora del mediterraneo 1999, Einaudi 2001), vincitore dell’edizione 2000 del premio Sandro Onofri
La Manutenzione degli affetti (Einaudi 2003, Einaudi 2006 – edizione aggiornata con aggiunta di tre nuovi racconti), vincitore di numerosi premi letterari
Passa la bellezza (Einaudi 2005)
Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro (Laterza 2006)
curatore dell’edizione 2005 dell’antologia Best Off (minimum fax 2005)